mercoledì 29 febbraio 2012

La Life Cycle Analysis: ferro da lancia della Green Revolution


Quanto stiamo “consumando” quando usiamo l'auto? E quando prendiamo un caffè? E quando usiamo un elettrodomestico? In alcuni casi la risposta a queste domande può sembrare estremamente semplice: il consumo di un'automobile è scritto sul libretto ed è espresso in litri di benzina su 100 km. Ma questa è spesso una risposta ingannevole: un “consumo” realistico (che contabilizzi in qualche modo l'effetto complessivo sull'ambiente di un bene) deve tenere in debito conta anche tutte le risorse naturali utilizzate per la creazione del manufatto e tutte le risorse che servono per dismetterlo. E' in questa ottica che nasce l’innovativa filosofia di pensiero denominata “Life Cycle Thinking” (LCT). Il principio che ispira questa filosofia è quello di considerare un prodotto come un insieme di processi, di flussi in input ed output di materiali e forme di energia associate a tutti gli step del suo ciclo di vita, dalla progettazione sino alla dismissione e al recupero o smaltimento finale. Partendo da questo approccio si sviluppa, in particolare in campo ambientale, la metodologia LCA “Life Cycle Assessment” che permette uno studio esaustivo del prodotto considerando tutti i processi connessi col suo intero ciclo di vita. Questo comporta che non vengono presi in considerazione solo gli effetti ambientali del semplice impianto di produzione, bensì l’intero processo che porta ad un prodotto, a partire dall’approvvigionamento delle materie prime (minerali, biomasse, flussi energetici, ecc.) fino allo smaltimento, passando attraverso l’utilizzo e il consumo. In questo panorama è molto importante definire con chiarezza i “confini” dello studio: lavorando in un contesto troppo ristretto, si potrebbe arrivare a delle conclusioni erronee a proposito di vantaggi o svantaggi; obiettivo degli studi LCA, invece, è il raggiungimento dell’ottimizzazione complessiva.
La SETAC (Society of Environmental Toxicology and Chemistry), che fu tra i primi a introdurre nei cicli progettuali la metodologia LCA, nel 1993 ne propose la seguente definizione: “procedimento oggettivo di valutazione di carichi energetici ed ambientali relativi ad un processo o un’attività, effettuato attraverso l’identificazione dell’energia e dei materiali usati e dei rifiuti rilasciati nell’ambiente. La valutazione include l’intero ciclo di vita del processo o attività, comprendendo l’estrazione e il trattamento delle materie prime, la fabbricazione, il trasporto, la distribuzione, il riuso, il riciclo e lo smaltimento finale” (SETAC, 1991).
Risulta evidente il concetto del “ciclo di vita” sul quale si basa lo studio sul prodotto analizzato, analisi “dalla culla alla tomba” (from cradle to grave) cioè dall’estrazione delle materie prime necessarie sino allo smaltimento finale. Non si pensi esclusivamente ai normali beni strumentali che acquistiamo e utilizziamo normalmente: si prestano ad analisi LCA anche opere complesse (come tracciati autostradali e impianti industriali) o servizi: particolarmente promettente per le sue indicazioni è ad esempio lo studio LCA delle diverse tipologie di raccolta dei rifiuti urbani.
A partire dal 1990 numerose iniziative furono avviate per per arrivare alla standardizzazione della metodologia LCA e si ebbe di conseguenza la pubblicazione di numerosi testi scientifici e strumenti di calcolo. Molto importante fu ovviamente la creazione di banche dati per l’applicazione pratica. L'International Standard Organization arrivò nel 1997 a definire le norme della famiglia ISO 14000 e successivamente, tra il 1998 e il 2000, le norme specifiche di prodotto della serie ISO 14040 che riportano i principi, i requisiti e le linee guida per l’applicazione della metodologia LCA ad un servizio o un prodotto; particolarmente importanti per una analisi del ciclo di vita sono le due norme di riferimento, la ISO 14040:2006 – Principles and framework e la ISO 14044 – Requirements and guidelines.
Con lo sviluppo della metodologia LCA si è arrivati ad avere oggi una struttura ben definita e un procedimento consolidato sulle modalità di svolgimento di un’analisi. Non di meno il campo dell'LCA è ancora in sviluppo: un esempio deriva dai modelli di calcolo utilizzati per la fase di LCIA che sono in continuo e costante aggiornamento e sviluppo, dove con LCIA (Life Cycle Impact Assessment) si intende quella fase in cui viene prodotto il passaggio dal dato oggettivo calcolato durante la fase di inventario al giudizio di pericolosità ambientale .
Ma quali sono le fasi di uno studio LCA? La prima fase di uno studio LCA è la “definizione dell’obiettivo e del campo di applicazione”; nel definire gli obiettivi dello studio si devono descrivere in modo chiaro l’utilizzazione prevista, le motivazioni che hanno portato allo studio, il pubblico a cui è destinato e la divulgabilità o meno dei risultati.
Segue poi un secondo step rappresentato dalla cosiddetta fase di “analisi dell’inventario”, detta anche fase di Life Cycle Inventory (LCI), che include la raccolta dei dati e i metodi di calcolo che permettono di quantificare i flussi di materia ed energia in entrata ed in uscita di un sistema di prodotto. Tale procedimento è un ”work in progress” che si completa via via che si procede con la raccolta dei dati : talvolta può rendersi necessario identificare nuovi requisiti o limitazioni riguardo i dati stessi, o modifiche nelle procedure di raccolta dati. Questa fase è particolarmente delicata per tutto quanto riguarda la definizione dei “system boundaries” ossia i confini entro i quali deve essere contenuta l'analisi.
A questa fase di definizione segue un processo di “valutazione dell’impatto del ciclo di vita” vero e proprio (LCIA, Life Cycle Impact Assessment), fase che include la raccolta dei risultati degli indicatori per le diverse categorie di impatto (cioè la classe che rappresenta i problemi ambientali di interesse ai quali possono essere assegnati i risultati dell’analisi dell’inventario del ciclo di vita; ciò si attua valutando l’entità dei potenziali impatti ambientali utilizzando i risultati dell’analisi dell’inventario del ciclo di vita).
Lo studio LCA si conclude ovviamente con l’”interpretazione dei risultati”, fase in cui i risultati ottenuti nelle precedenti fasi di analisi di inventario e di valutazione degli impatti vengono collegati tra loro al fine di trarne delle conclusioni e delle raccomandazioni, in riferimento all’obiettivo dello studio. Questa fase andrebbe condotta interagendo con gli altri elementi della fase di interpretazione in modo da valutare e comunicare i fattori significativi, la metodologia e i risultati.
Da quanto detto risulta chiaro che la quantificazione degli impatti è un punto critico del metodo: se stiamo valutando l'effetto ambientale di un'automobile come possiamo confrontare l'estrazione del minerale di ferro in Nuova Zelanda e le emissioni di ossidi d'azoto nel centro di Milano? Poichè la complessità delle relazioni tra i differenti impatti ambientali è enorme si utilizzano dei metodi standard per la valutazione degli impatti: tra questi vale la pena di ricordare gli Eco-indicator 99, il CML method, IMPACT 2002 e l'IPCC Greenhouse gas emission.
Quasi tutti questi metodi solitamente categorizzano gli stessi tipi di impatti. Un set di impatti molto comune è per esempio:
  • Riscaldamento globale (GWP)
  • Riduzione dell’ozono presente nella stratosfera (ODP)
  • Formazione fotochimica dell’ozono nella troposfera (POCP)
  • Eutrofizzazione (NP)
  • Acidificazione (AP)
  • Tossicità per l’uomo (HTP)
  • Eco-tossicità (ETP)
  • Utilizzo del territorio
Poichè descrivono processi complessi, le unità di misura sono spesso complicate: per esempio il GWP (Global Warming Potential) è la misura di quanto una data massa di gas serra contribuisce al riscaldamento globale.
In conclusione l’utilizzo dello strumento LCA come supporto per le scelte di un'organizzazione (sia essa un'azienda, un organo politico o un'amministrazione), può talvolta essere problematica, e dare origine a dati che suggeriscono prudenza nell’interpretazione dei risultati: la qualità dei dati utilizzati può avere un peso determinante nell’esito dei calcoli.
Ciononostante l’approccio, prettamente globale, della tecnica LCA, fa sì che l'analisi possa essere destinata ad orientare scelte aziendali o politiche (e in questo caso dovrebbe tenere conto, quanto più possibile, degli elementi caratteristici del contesto locale la cosidetta problematica della “spatial differentiation in LCA”).
Va comunque tenuto presente che negli studi LCA condotti su scenari futuri la definizione di determinate condizioni al contorno presenta inevitabilmente dei margini di discrezionalità che possono risultare molto ampi agli effetti del calcolo: ma non di meno questo genere di studi dovrebbe essere considerato dai “decision makers” di ogni livello come uno strumento strategico fondamentale, senza il quale le discussioni sugli “impatti ambientali” rischiano di rimanere vuoti esercizi retorici.

martedì 28 febbraio 2012

La figura dell'Energy Manager


La nomina dell'energy manager è obbligatoria per le aziende industriali con consumi superiori ai 10.000 TEP/anno e per aziende di altri settori sopra i 1.000 TEP/anno.
L'energy manager deve svolgere in azienda funzioni di punto di raccolta e coordinamento per tutto quanto riguarda l'uso razionale dell'energia.
Questo incarico comporta:
  • Individuazione e raccolta dati di tutte le utenze energetiche da controllare e stesura di un programma per la loro verifica ed aggiornamento;
  • Redazione di un piano generale di verifica e controllo, anche predisponendo gli strumenti più opportuni, delle condizioni di funzionamento delle utenze energetiche; controllo della sua attuazione;
  • Esame delle eventuali opportunità di interventi, ottimizzazione dell'uso dell'energia e della possibilità di impiego di energie alternative;
  • Analisi tecnico-economica di ogni eventuale intervento di ottimizzazione dell'uso dell'energia;
  • Redazione di progetti di fattibilità degli interventi che possono essere effettuati;
  • Controllo periodico, per ogni utenza, dei consumi energetici per la verifica della validità di eventuali interventi di ottimizzazione dell'uso dell'energia,
  • Verifica ed eventuale ottimizzazione dei contratti di fornitura dell'energia;
  • Predisposizione di un programma di manutenzione predittiva, preventiva e correttiva per assicurare condizioni ottimali dell'energia.
Tutte queste responsabilità vengono svolte a stretto contatto con le funzioni aziendali (ufficio tecnico, produzione, manutenzione, acquisti) e fanno dell'EM una figura di raccordo che per esperienza personale e qualifiche
Per quanto sopra l'energy manager si candida anche a essere la figura più indicata come Rappresentante della Direzione nel caso l'azienda si voglia certificare ISO50001:2011.

lunedì 27 febbraio 2012

Quando la cogenerazione conviene?

Si prende in considerazione una azienda chimica che ha elevati consumi elettrici (prelevati da rete) e termici (vapore prodotto da gas naturale). L'azienda decide di valutare la convenienza di un investimento in un impianto di cogenerazione a metano.
Le valutazioni preliminari vanno fatte sul consumo elettrico complessivo e sul consumo termico complessivo, verificando che ci sia una sufficiente continuità nel corso dell'anno e anche una buona contemporaneità tra i due utilizzi. Il parametro riassuntivo di questa analisi è il T/E, rapporto tra consumo termico e consumo elettrico. Si assume che il rapporto sia ca. 2 e ca. costante per almeno 7000 h/anno (quindi ciclo continuo). Si assume che il consumo elettrico sia mediamente 1,5 MW.
Si valuta quindi l'inserimento di un gruppo cogenerativo turbogas della potenza di 1,5 MW elettrici, con caldaia a recupero in grado di erogare vapore alla pressione di rete per ca. 3 MW termici.
Ipotizzando che il nuovo gruppo abbia un rendimento elettrico del 30% e un rendimento termico del 60% (contro un rendimento termico delle caldaie esistenti dell'80% e un rendimento di produzione dell'EE di rete del 40%) l'indice di risparmio energetico vale:

IRE=1-1/(30/40+60/80)=33%

Il consumo dell'azienda è:
Consumo gas = 2000 kW / 80% / 35000 (PCI metano kJ/Nmc)=0,07 Nmc/sec
Per un costo complessivo di 107 €/h + 100 €/h di acquisto EE (valorizzata a 0,1 €kWh).

Il consumo orario di metano con coge sarà:
consumo = 1000 kW / 30%(rendimento) / 35000 (PCI metano kJ/NMc) = 0,1 Nm3/sec
Per un costo orario di 137 €/h (metano valorizzato a 0,4 €/Nmc).

Quindi il gruppo permette un risparmio di 207-137 = 70 €/h e di 490.000 €/anno.
Se si stima l'investimento in 2,5 M€ il pay-back (non attualizzato) è di ca. 5 anni. Va tenuto conto che l'intervento potrebbe godere anche dell'incentivazione con titoli di efficienza energetica, che andrebbero a ridurre il pay-back appena calcolato.

Nella valutazione va tenuto conto anche di:
  • disponibilità di spazi all'interno dello stabilimento;
  • cambiamenti di lay-out logistico e di distribuzione utilities;
  • cambiamenti organizzativi (nuovo personale / formazione del personale esistente);
  • modifiche nel regime autorizzativo (emissioni);
  • modifiche contrattuali per la fornitura del gas;
  • tempi di fermo impianto per installazione e collegamento del gruppo coge;
  • Per tutte queste voci vanno valutati i costi e le criticità relative.


La convenienza e la fattibilità dell’impianto devono essere attentamente valutate, soprattutto alla luce dei dati che emergono dalle analisi economiche contenute nei business plan. Qui di seguito vi presentiamo i dati relativi a tre impianti di cogenerazione a olio vegetale, sviluppati, realizzati e gestiti da una ditta specializzata.

Nel caso degli impianti a olio vegetale, la ditta si è strutturata in modo tale da coprire l’intera filiera dell’olio vegetale: dalla coltivazione agricola, passando per la spremitura dei semi tracciati, fino alla fornitura dell’olio al cliente.

Gli impianti analizzati negli esempi hanno tutti una potenza elettrica di 990 kW, una produzione di 7.920 MWh/anno e utilizzano olio vegetale tracciato ai sensi del regolamento (CE) n. 73/2009. Possono quindi beneficiare della Tariffa fissa onnicomprensiva di 0,28 €/kWh. I business plan sono sviluppati su un arco temporale di 15 anni (2011-2025), che corrisponde alla durata della Tariffa onnicomprensiva.

Ricordiamo che la Tariffa onnicomprensiva consiste nel riconoscimento, per un periodo di 15 anni, di una tariffa incentivante per ogni kWh di elettricità netta prodotto dall'impianto e immesso nella rete elettrica. Per quanto riguarda le biomasse, la Tariffa onnicomprensiva è pari a 0,28 €/kWh per biogas, biomasse e “oli vegetali puri tracciabili attraverso il sistema integrato di gestione e di controllo previsto dal regolamento (CE) n. 73/2009 del Consiglio, del 19 gennaio 2009”. Nel caso invece di utilizzo di “gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biocombustibili liquidi (e quindi eventualmente anche oli vegetali, ma non tracciabili) la Tariffa è pari a 0,18 €/kWh.

I dati economici relativi ai tre impianti differiscono tra loro a seconda del livello di recupero dell’energia termica in cogenerazione (nessun recupero, recupero parziale, recupero totale). Determinanti ai fini di una migliore reddittività economica sono i “costi evitati”, grazie all’autoconsumo del calore prodotto o eventualmente della cessione dello stesso. Calore che può essere utilizzato per produrre acqua calda sanitaria, riscaldare gli ambienti o per applicazioni industriali.

Gli indicatori energetici nella gestione dell'energia in azienda

Gli indici energetici sono strumenti fondamentali per la gestione dell'energia in un'azienda perchè rappresentano la gestione in modo chiaro e sintetico. Alcuni indici che l'azienda potrebbe monitorare sono:
  • Consumo totale di energia: va calcolato riportando tutti i consumi primari (combustibili fossili, EE, scarti termovalorizzati, acquisti di utilities) a una base energetica comune (MJ o TEP);
  • Consumo specifico: è il consumo specifico diviso la produzione dell'azienda (n° pezzi prodotti, n° tonn prodotte, km percorsi, ecc.). E' un indice significativo solo se la produzione è sufficientemente standardizzata da poter essere considerata indifferente dal punto di vista energetico. In questo caso è spesso utile separare una quota di consumo fisso (indicativamente il consumo dello stabilimento a produzione ferma) da una quota di consumo variabile (dipendente solo dalla produzione). Da notare che spesso il legame consumo energetico / produzione è non lineare.
  • Rendimento termico: è il rapporto tra la produzione di energia utile di una macchina termica e l'energia introdotta come combustibile (di solito calcolata sul CPI). Questo indice da utilissime indicazioni sullo stato di manutenzione della macchina ed eventualmente sulla convenienza di sostituirla.
  • COP: nelle macchine frigorifere è il rapporto tra frigorie ottenute ed energia utilizzata dal gruppo frigo. Come il rendimento dà indicazioni sulla manutenzione ma (in ambito climatizzazione) risente fortemente di fattori esterni quali la temperatura ambiente.
  • Consumo specifico per la produzione di utilities: è usato ad esempio per il controllo delle centrali aria compressa ed è calcolato come kWh/Nmc di aria compressa. Permette di riassumere semplicemente le prestazioni di una centrale.

Volendo impostare l'attività di un'azienda sul benchmarking è necessario disporre di dati di aziende comparabili (per esempio altri stabilimenti dello stesso gruppo o provenienti da analisi del settore). Per esempio nella raffinazione viene utilizzato l'indice Solomon che, tra gli altri dati, utilizza anche indici di intensità energetica. La disponibilità di confronti di questo tipo richiede la creazione di standard (p.e. Correlazioni tra consumi e fattori energetici), l'implementazione di politiche di budget e la valutazione attenta degli scostamenti tra i dati attesi e quelli ottenuti. Valutazioni di questo tipo sono utili se ripetute periodicamente, in quanto tengono conto del miglioramento medio di un settore.

Come funziona l'incentivazione tramite "certificati verdi"?


Il meccanismo dei “certificati verdi” rappresenta il modo in cui gli stati europei hanno deciso di incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili. Tali fonti molto spesso sono economicamente poco competitive rispetto alle fonti tradizionali per motivi di scarsa maturità tecnologica, alto costo delle materie prime, alti costi d'investimento: l'incentivazione fa da volano allo sviluppo di queste fonti e ottiene risultati di indipendenza energetica e minori impatti ambientali.
Il meccanismo parte dalla creazione di soggetti obbligati: i produttori e gli importatori di energia elettrica in Italia devono, a partire dal 2002, dimostrare che una parte dell'energia immessa in rete proviene da impianti IAFR (impianti alimentati a fonti rinnovabili, che ottengono l'apposita qualifica). Tale percentuale partì dal 2% e supererà il 7,5% nel 2012, escludendo una franchigia di 100 GWh. La quota di energia rinnovabile può provenire da propri impianti oppure da impianti terzi nel secondo caso l'obbligo è assolto con il versamento dei cd. “certificati verdi”. 1 certificato verde =1 MWh (a partire dalla Finanziaria 2008).
L'energia prodotta da un impianto IAFR che da diritto a CV è l'energia netta, cioè quella prodotta ai morsetti dell'alternatore diminuita di perdite di trasmissione fino al punto di consegna, consumo degli ausiliari, ecc. Con la Finanziaria 2008 questa energia netta per essere trasformata in CV va moltiplicata per un coefficiente K differenziato per il tipo di fonte. K va da 0,9 per il geotermico a 1,8 per il biogas e per lo sfruttamento del moto ondoso. Tramite K il legislatore ha deciso di incentivare maggiormente le fonti con costi più elevati o meno sviluppate tecnologicamente.
La finanziaria 2008 ha inoltre aumentato da 12 a 15 anni il periodo per il quale un impianto IAFR può ottenere i CV. I CV possono essere venduti dal possessore tramite accordi bilaterali con i soggetti obbligati o scambiati su una apposita borsa valori gestita dal Gestore Mercato Energia (GME). Sempre la Finanziaria 2008 ha stabilito che il prezzo d'offerta del CV sul mercato è la differenza tra 180 € e il prezzo medio di acquisto dell'energia dell'anno precedente. A partire dal 2007 il proliferare di impianti IAFR ha fatto molto scendere il valore dei CV.
Il GSE ritira l'eccesso di CV a un prezzo pari alla media dei CV dell'anno precedente. Va comunque notato che oltre alla remunerazione dei CV gli impianti IAFR hanno dei ricavi dalla vendita dell'energia elettrica (ed eventualmente termica) a prezzo di mercato.
La Finanziaria 2008 ha inoltre stabilito per i piccoli impianti IAFR (potenza inferiore a 1 MW per tutte le tipologie tranne che per l'eolico dove il limite è di 200 kW) di cedere la propria energia a una tariffa onnicomprensiva. Questo regime è alternativo all'ottenimento dei CV e permette di ottenere una tariffa che comprende vendita + incentivo. La tariffa è differenziata per tipo di fonte per dare incentivi diversi a fonti in diversi punti della curva tecnologica.

L'utilizzo delle alghe per la produzione di biocarburanti


Premessa
Energia e trasporti sono due settori a strettissimo contatto. Nei paesi industrializzati circa un terzo del consumo totale di energia primaria è utilizzato per i trasporti e si tratta nella quasi totalità di energia da fonti fossili. Come riuscirà a reggere questo comparto alla diminuita disponibilità di petrolio che si prospetta per i prossimi anni?
Una risposta, sia pure parziale, è data dall'utilizzo di biomasse per la produzione di carburanti. Essenzialmente i filoni tecnologicamente maturi sono il bioetanolo (su cui gravano sospetti di un EROEI minore di 1, ossia di richiedere per la produzione più energia di quella che viene restituita) e il biodiesel. Quest'ultimo è ottenuto quasi completamente dai semi delle oleaginose (colza, girasole, palma, ecc.).
Se a prima vista questo genere di produzione ha impatti positivi in termini di autonomia energetica e di ridotta emissione di CO2 (che viene parzialmente compensata dalla CO2 assorbita dalla pianta durante la sua crescita) non pochi dubbi sono stati sollevati su questa filiera di produzione, in termini di sostenibilità ambientale e di utilizzo della superficie agricola, bene strategico in un mondo sempre più affamato.
L’utilizzo di olio ricavato da biomassa algale permette, in prospettiva, di ridurre alcuni dei problemi suddetti in quanto le alghe non sono utilizzate come alimento primario e inoltre non richiedono terreni agricoli. Oltre all'uso energetico le alghe possono essere usate per colture alimentari, per la depurazione delle acque e come fertilizzanti, in quanto sono coltivate in particolari reattori che possono essere posti ovunque vi siano condizioni favorevoli in termini di temperatura e irraggiamento. Sono inoltre possibili più raccolte durante l’anno e non, come per tutte le altre piante a terra, uno o al massimo due raccolti l’anno.

Biodiesel, il quadro normativo
In Europa le modalità di utilizzo dei biocarburanti sono dettati dalla Direttiva Europea 2003/30/CE, recepita in Italia dal Decreto Legislativo 30/05/2005 n.128 nel quale vengono definite le modalità di tassazione alla quale devono essere sottoposti i biocarburanti. La Direttiva 2003/30/CE aveva come scopo la promozione e l’introduzione di biocarburanti o di altri carburanti rinnovabili in sostituzione del carburante diesel o di benzina nei trasporti al fine di rispettare gli impegni della Comunità Europea in materia di cambiamenti climatici e per contribuire all’approvvigionamento rispettando l’ambiente e promuovendo fonti di energia rinnovabile: a questo scopo il Decreto 30/05/2005 prevedeva un incentivo alla produzione di oli minerali o biodiesel in quanto, in relazione ad un programma della durata di sei anni dal 1°gennaio 2005 al 31 dicembre 2010, esentato dalle accise nei limiti di un contingente di 200.000 tonnellate.
L'obiettivo nazionale nell’introduzione di biocarburanti ed altri carburanti rinnovabili, espressi come percentuale del totale del carburante diesel e di benzina nei trasporti, prevedeva il raggiungimento della soglia del 1% entro il 31 dicembre 2005, il 2,5% per il 31 dicembre 2008 e il 5,75% per il 31 dicembre 2010 (quest’ultimo coincide inoltre con l’obiettivo europeo). Il decreto del 25 gennaio 2010, però, ha ridotto questi obiettivi al raggiungimento della quota minima nazionale per il 2010 del 3,5 %, calcolato su base del tenore energetico; per l’anno 2011 tale quota è fissata al 4% e per il 2012 al 4,5%; percentuali comunque molto lontane dalla quota minima europea che è appunto del 5.75% .

Il biodiesel da microalghe
La produzione di biomassa algale ha trovato sempre più grande attenzione negli ultimi decenni in quanto sembra essere la risoluzione ai problemi legati alla produzione da colture tradizionali. Le microalghe potrebbero, infatti, produrre da 50.000 a 200.000 Litri di olio da trasformare in biodiesel per ettaro all’anno, in confronto ai 1.000, 2.500 o 6.000 (per l’olio di palma) litri per ettaro ottenibili dalle colture a terra.
La quantità di biodiesel prodotto dipende dal contenuto di lipidi nelle alghe , che a sua volta dipende dalla specie algale e dalle condizioni in cui viene coltivata. Alcune tipologie di alghe possono arrivare a contenere più del 80% di lipidi nella loro massa secca.
Il problema principale è al momento dovuto al costo molto alto della produzione di biodiesel da alghe, il quale è dovuto principalmente ai processi di raccolta della biomassa e alla concentrazione ed essiccamento della stessa: il biodiesel è un composto prodotto attraverso una reazione di trans-esterificazione a partire da trigliceridi e alcoli in presenza di un catalizzatore. Attualmente non sono ancora presenti impianti che permettano la produzione di biomassa su larga scala, in quanto questa nuova tecnologia è ancora in fase di sperimentazione.

Le microalghe: fonte perpetua di energia
La coltura di massa delle microalghe è studiata già da 60 anni, a cominciare dall’inizio degli anni ‘50 come potenziale fonte di sostentamento per l’umanità, con la prospettiva di risolvere la carenza alimentare dei paesi più poveri.
Le preoccupazioni riguardo l’inquinamento delle acque, negli anni ’60, svilupparono l’interesse nell’uso delle microalghe per il trattamento delle acque reflue. Trattare la acque reflue, infatti, sembrava essere il modo migliore, e più economico, per associare la depurazione delle acque, ricche di elementi fondamentali per la sintesi algale, alla crescita delle microalghe. Nel corso degli anni 80 si sono sviluppati negli Stati Uniti sia impianti di dimensioni importanti che centri di trattamento delle acque reflue di medie o piccole dimensioni che utilizzavano open pond, e in rari casi si effettuava la raccolta della biomassa algale prodotta.
Le microalghe sono microorganismi unicellulari autotrofi o eterotrofi che crescono, come le piante terrestri, attraverso un processo di fotosintesi in cui catturano anidride carbonica e energia luminosa, e le convertono in lipidi. Il gruppo delle microalghe include procarioti (cianobatteri o alghe verdi-azzurre) e eucarioti (alghe verdi, diatomee, alghe rosse, etc...). Una delle più grandi sfide nella coltura delle alghe è individuare le specie che crescnoa velocemente e che contengano al loro interno un alto contenuto di lipidi, i quali siano facili da estrarre e raccogliere.
Le colture di microalghe sono usate comunemente come alimentazione in acquacoltura e per la produzione di molecole ad alto valore aggiunto, a causa dell’alto contenuto di acidi grassi delle alghe. Affinchè la crescita possa essere attuata e favorita devono essere rispettate alcune condizioni ambientali fondamentali. Nelle prime due fasi di crescita deve essere fornito un apporto di nutrienti, ed essendo le alghe organismi autotrofi fotosintetici è costituito, perdipiù, da concentrazioni adeguate di CO2, N (sotto forma di nitrati di ammonio) e P (sotto forma di fosfati) oltre che un esposizione alla luce adeguata. L’energia radiante, infatti, è in grado di promuovere i processi di fotosintesi che consentono la fissazione dell’anidride carbonica e degli altri nutrienti inorganici presenti in fase fluida, producendo materiale organico che costituisce la cellula algale; questa può quindi accrescersi e moltiplicarsi per fissione o duplicazione producendo altra biomassa ad alto contenuto lipidico.

Le specie più promettenti
Nella produzione di biodiesel da alghe i parametri fondamentali da considerare per individuare le specie algali migliori, sono l’analisi della concentrazione di lipidi e la velocità di crescita. A parte questi due valori fondamentali devono essere considerati, inoltre, il rischio di contaminazione della coltura, apporto di nutrienti necessario e le tecnologie di raccolta e concentrazione della biomassa. Potrebbe infatti essere favorita la coltura di una specie in grado di effettuare bioflocculazione in particolari condizioni ambientali. In seguito verranno passate in rassegna alcune delle specie algali più usate.
Arthrospira platensis: È conosciuta anche con il nome di Spirulina per la sua particolare forma. È coltivata sia all’interno di fotobioreattori che in lagune aperte o raceway. La specie Spirulina è relativamente resistente alla contaminazione quanto cresce all’interno di un mezzo che contiene un’alta concentrazione di bicarbonato (15g/L). La maggior parte dei sistemi di produzione di questa specie usa raceway poco profondi, foderati di plastica e miscelati con ruote a pale che permettono un buon controllo delle condizioni.
Dunaliella salina: La coltura di questa tipologia di alga richiede particolari condizioni climatiche ed ambientali oltre alla disponibilità di specifici substrati nutritivi che ne favoriscono ed incrementano la crescita. La produzione di questo tipo alga avviene solitamente in raceway non molto profondi miscelati con ruote a pale. Possono essere usati, tuttavia, anche grandi pond non miscelati posizionati in luoghi dove il costo del terreno non è rilevante, in modo da diminuire cosi il costo di produzione.
Botryococcus braunii: È un microalga verde a forma di piramide. Le colonie di questa tipologia di alghe possono crescere in laghi ed estuari della zona tropicale o temperata e possono fiorire in presenza di elevati livelli di fosforo disciolto. L’olio derivante da questa specie algale non permette di ottenere biodiesel attraverso trans-esterificazione in quanto esso presenta trigliceridi di acidi grassi; può essere usato come materia prima per idrocracking e raffinazione dell’olio per produrre ottano, cherosene e diesel.

Recupero della biomassa algale e conversione dei lipidi in biocarburante
Una volta prodotta, la biomassa algale essa deve essere recuperata dai terreni di coltura per essere trattata e utilizzata nei suoi vari impieghi. La raccolta e l’isolamento della produzione delle colture microalgali è una delle aree più problematiche nella tecnologia di produzione del biocarburante dalle alghe. Questo è dovuto al costo dei processi di recupero della biomassa da una soluzione fortemente diluita, soprattutto se la coltura è stata effettuata in vasche aperte.
I metodi di recupero della biomassa sono diversi e presentano oltre a caratteristiche differenti anche costi variabili. La biomassa diluita raccolta deve essere concentrata di oltre 100 volte per raggiungere una densità sufficiente (almeno 50g/L, preferibilmente 100g/L o oltre) a consentire il suo successivo processamento e conversione a biocombustibile.
Le principali tecniche usate per il recupero e concentrazione di biomassa sono:
Flocculazione: È la raccolta delle cellule in una massa aggregata attraverso l’addizione di polimeri. Le cellule microalgali aggregate offrono il vantaggio di una più facile separazione dal brodo di coltura;
Centifugazione: Può essere utilizzata per quasi tutti i tipi di alghe anche se è sconsigliata per quelle che presentano cellule molto fragili. La centrifuga è praticamente un serbatoio di sedimentazione nel quale vi è un miglioramento della forza di gravità per favorire la sedimentazione;
Filtrazione: Viene usata in campo commerciale per raccogliere la Spirulina e questo processo risulta relativamente a basso costo usando i cosiddetti microfiltri. Si tratta solitamente di filtri rotanti con un controlavaggio, filtri inclinati o vibrofiltri;.

Una volta separata la biomassa algale deve essere in primo luogo sottoposta a un processo di estrazione dei lipidi per ottenere l’olio di alga, il quale, poi, verrà trattato per essere trasformato in biodiesel. La frazione lipidica può essere estratta dalla biomassa attraverso estrazioni con solventi, meccaniche, o con l’utilizzo degli ultrasuoni. Può essere sottoposta inoltre a pirolisi o cracking.

Conclusioni
Da quanto esposto risulta chiaro come le potenzialità della produzione di biodiesel da microalghe siano estremamente interessanti. Al momento, in tutte le sperimentazioni effettuate, il problema risultano essere gli elevati costi di separazione e trasformazione della biomassa in carburante. Ciononostante la possibilità di integrare la produzione di biocarburanti con altre produzioni (quali ad esempio la produzione di integratori alimentari, biofertilizzanti, mangimi o carta) o altri utilizzi (come ad esempio la depurazione delle acque reflue) rende il settore delle alghe uno dei più promettenti nel panorama delle energie rinnovabili.

Impianti di cogenerazione - fattibilità e convenienza


Un sito che voglia valutare la convenienza di un impianto di cogenerazione deve avere le seguenti caratteristiche:
  • elevati consumi termici ed elettrici, continuativi per un buon periodo dell'anno; in alternativa deve avere nelle vicinanze un consumatore interessato ad assorbire parte della produzione (p.e. quartieri d'abitazione che vogliono accedere al teleriscaldamento);
  • contemporaneità di consumo termico ed elettrico;
  • disponibilità di una fonte energetica con PCI sufficientemente elevato (metano di rete, biogas, scarti industriali, ecc.).
Verificati questi requisiti andrebbe analizzato il consumo totale termico ed elettrico nell'arco di un periodo sufficientemente lungo per arrivare a definire il rapporto T/E (consumo termico/consumo elettrico). Altro elemento fondamentale è il livello termico del calore che si vuole recuperare
Le scelte tecnologiche per un gruppo coge sono essenzialmente:
  • Turbogas: 200 kW-100 MW. Funziona solo con combustibili liquidi o gassosi. Poco costosa e compatta e molto flessibile. Rendimento elettrico: 22-37%. T/E superiore a 2. Avviamento e cambiamenti veloci. Calore reso ad alta temperatura
  • Motori a combustione interna: 10 kW-120 MW. Funzionano con carburanti o gas. Poco costosa e compatta e molto flessibile. Rendimento elettrico: 30-45%. T/E attorno a 1. Calore reso a “bassa” temperatura.
  • Cicli rankine: potenza 500 kW-100 MW. Funziona con qualsiasi combustibile (anche solido). Costosa ma molto flessibile. Rendimento elettrico: 20-35%. T/E attorno a 2. Avviamento e cambiamenti lenti. Calore reso a media temperatura.

Poichè i gruppi turbogas emettono gas di scarico a temperature molto elevate può essere conveniente utilizzare questi fumi per far funzionare un gruppo Rankine: si parla in questo caso di gruppi combinati:
  • Gruppi combinati: 4-300 MW. Funziona solo con combustibili liquidi o gassosi. Costosa e poco flessibile. Rendimento elettrico: 45-55%. T/E inferiore a 2. Avviamento e cambiamenti lenti. Calore reso a media temperatura.

Ricapitolando la scelta del gruppo COGE andrà fatta sulla base di:
  • consumi complessivi;
  • T/E;
  • combustibili disponibili;
  • necessità di cambi d'assetto;
  • livello termico necessario.

Gli Esperti in Gestione dell'Energia in Italia



Non sono più di una trentina in tutta Italia e sono i nuovi manager dell’energia e dell’ambiente. Si chiamano Esperti in Gestione dell'Energia (EGE), sono professionisti le cui capacità devono essere certificata da un apposito ente, il SECEM, e rappresentano l'evoluzione del Responsabile per la gestione dell’energia usualmente noto come “Energy Manager”.
Degli EGE non ne potranno fare a meno tutte le aziende e le organizzazioni che intendono perseguire l’obiettivo dell’uso razionale dell’energia e dell’efficienza energetica. Infatti, agli EGE è richiesto di associare le conoscenze in campo energetico ed ambientale con competenze gestionali, economico-finanziarie, di comunicazione e con la capacità di mantenersi aggiornati.
L’ultimo in ordine di tempo ad aver acquisito la certificazione è il padovano Luca Vecchiato, Direttore tecnico della veneta Energol (Gruppo Ethan), attiva proprio nel settore energetico con specifico riferimento al risparmio energetico. Energol opera infatti nei settori fotovoltaico, illuminazione a led, impianti di produzione energia da biogas.
L’ing. Vecchiato, che proviene da una carriera in aziende del settore energia e dell'impiantistica industriale, ha dichiarato: “La gestione intelligente dell'energia in azienda è una delle sfide più importanti che il mondo produttivo si trova ad affrontare. Il ruolo degli EGE in questo contesto è fondamentale e consiste nell'apportare competenze e conoscenze che altrimenti sarebbero di difficile reperimento.

Elenco degli EGE certificati da SECEM:

domenica 26 febbraio 2012

La diagnosi energetica: strumento di gestione aziendale


La diagnosi energetica è lo strumento fondamentale per ordinare e mettere ordine negli interventi di efficientamento che un organizzazione vuole implementare: la diagnosi deve partire necessariamente da un'analisi energetica dello stabilimento e quindi da un censimento di tutti i consumi di energia primaria e delle eventuali produzioni di energia interne allo stabilimento. Questa analisi deve essere condotta su un periodo significativo: almeno 1 anno e comunque un periodo che comprenda eventuali ciclicità dell'attività produttiva. Vanno individuati gli usi e consumi energetici dividendoli per esempio per area di consumo secondo l'organizzazione dell'azienda (produzione, logistica, ecc.) o per tipo di energia utilizzato: vanno presi in considerazione combustibili fossili (gas naturale, gasolio, carbone, ecc.), fonti energetiche interne (scarti di produzione termovalorizzati, residui organici usati per la produzione di biogas, impianti fotovoltaici, eolici, ecc.), vettori energetici acquistati all'esterno (EE, vapore, aria compressa, ecc.).
Tali usi e consumi vanno valorizzati su una base comune (p.e. TEP o MJ) per avere una stima dell'incidenza statistica sul consumo totale dello stabilimento. Questa stima serve anche per individuare delle soglie di significatività al di sotto della quale il consumo può essere monitorato con minore attenzione.
A questo punto vanno valutate le opportunità di miglioramento su ciascuna area di consumo, valutando contemporaneamente idoneità delle procedure utilizzate, idoneità del controllo operativo, confronto con le best practices. Dove si rilevi per uno di questi motivi consumi superiori alle attese si prospetta un'opportunità di miglioramento che può riguardare:
implementazione di nuove procedure: p.e. spegnimento delle macchine durante i periodi di inattività, rotazione nel funzionamento delle apparecchiature energivore;
miglioramento del controllo operativo: p.e. affinamento dei compiti di controllo dei capiturno e capireparto, aumento delle frequenze di manutenzione delle apparecchiature;
interventi impiantistici: inserimento di impianti di produzione energetica (cogenerazione, utilizzo di scarti, ecc.), inserimento di recuperi termici, nuovi corpi luminosi, ecc.
Di ciascuno degli interventi individuati andrà indicato:
costo indicativo dell'implementazione;
  • eventuali incentivi disponibili;
  • risparmio conseguibile;
  • ritorno economico (ad esempio pay-back, TIR, VAN).
Per interventi particolarmente onerosi andrà abbozzata una sensitivity analisys ai principali parametri che possono influenzare l'investimento.

Quali interventi per il miglioramento dell'efficienza?


Quali interventi di miglioramento energetico implementare in un'azienda manifatturiera? Come scremare gli interventi ed ottenere i massimi risultati tecnico-economici?
Prima di procedere a individuare gli interventi più interessanti va effettuata una diagnosi energetica che individui le aree e le apparecchiature di maggior consumo su un arco di tempo significativo. I dati più importanti da analizzare sono:
aree / apparecchiature di maggior consumo;
anzianità e stato di conservazione delle apparecchiature
andamento del consumo energetico complessivo e (per quanto riguarda il consumo elettrico) consumo ripartito nelle fasce F1, F2 e F3 ed valore dello sfasamento cos phi
A fronte di questa analisi alcuni interventi da valutare sono:
sostituzione delle apparecchiature vetuste con apparecchiature nuove;
  • sostituzione di motori a bassa efficienza con motori a efficienza più elevata
  • inserimento di azionamenti ad inverter per utenze molto variabili;
  • gestione automatizzata di gruppi di apparecchiature, per esempio compressori aria compressa o centrali frigo.
Anche se non strettamente correlati alla riduzione dei consumi ma molto attinenti al campo energetico sono le seguenti valutazioni:
  • inserimento di rifasatori nel caso il cos phi sia basso e causa di penali;
  • valutazione della sostituzione di utenze elettriche con utenze termiche (per esempio compressori mossi da turbine a vapore). Tale intervento può anche avere lo scopo di bilanciare il T/E complessivo e rendere più conveniente un impianto di cogenerazione
Di ciascun intervento andrà definito costo d'investimento e d'esercizio, risparmio conseguibile, eventuali incentivazioni, ritorno economico (Pay-back, VAN, TIR).

L'autoproduzione di energia elettrica è da valutare ad esempio nei casi:
  • indisponibilità del fornitore a un aumento della potenza elettrica necerssaria oppure frequenti black-out di rete: in questo caso può essere interessante inserire un gruppo elettrogeno, ad esempio a gasolio;
  • disponibilità di scarti prodotti dall'attività e di difficile gestione/smaltimento: se il PCI di questi è sufficientemente elevato può essere interessante valutare l'investimento in un impianto di termovalorizzazione;
  • disponibilità in loco di fonti alternativi (crinali ventosi per l'eolico, tetti ben esposti per il FV);
  • elevati consumi elettrici e termici e contemporaneità di utilizzo di EE e calore: risulta molto interessante l'investimento in un impianto di cogenerazione a gas oppure a biocombustibili.

Il ruolo dell'Energy Manager e dell'Esperto in Gestione dell'Energia


Nei tardi anni '70 il mondo occidentale si trovò davanti a un panorama di macerie: le due crisi energetiche del 1973 e del 1979, pur molto diverse per cause e conseguenze, avevano minato le fondamenta di un modello basato sulla crescita ininterotta e il loro intero apparato produttivo andava riorganizzato su basi di efficienza nell'uso delle risorse. Uno dei punti più bisognosi di attenzione era proprio quello del consumo energetico e l'Italia si diede, con D. Lgs. 308 del 1982, una prima struttura di energy management: le aziende industriali con un consumo superiore alle 10.000 Tonnellate Equivalenti di Petrolio all'anno (TEP, un'unità di misura dell'energia particolarmente adatta a riassumere forme diverse di consumo) erano obbligate a comunicare al Minisitero dell'Industria il nominativo del funzionario responsabile per la conservazione dell'energia.
Detta figura venne poi estesa e ampliata con la fondamentale legge n. 10 del 1991, che estese l'obbligo della nomina del Responsabile per la conservazione e l'uso razionale dell'energia (spesso indicato col termine inglese Energy Manager – EM) anche a tutte le attività dei settori diversi dall'industriale che hanno consumi annui superiori ai 1.000 TEP. Incarichi e obblighi del reponsabile vennero dettagliati nella circolare 219/F/92 (punto 14) la quale stabilisce che nel responsabile per la conservazione e luso razionale dellenergia si configura un professionista con funzioni di supporto al decisore in merito al miglior utilizzo dell’energia nella struttura di sua competenza non avendo peraltro responsabilità in merito all’effettiva attuazione delle azioni e degli interventi proposti, ma solo in merito alla validità tecnica ed economica delle opportunità di intervento individuate.
La Circolare MICA del 2 marzo 1992, n. 219/F riporta inoltre le modalità di trasformazione dell'energia consumata in TEP: i valori in essa contenuti vanno usati qualora non siano noti dati precisi sui poteri calorifici dei combustibili utilizzati. Qualora il combustibile adoperato non rientri fra le voci in tabella (p.e. biodiesel, GECAM, etc), il valore del potere calorifico inferiore va richiesto al fornitore. Va notato che alcuni di questi valori sono influenzati dall'evoluzione tecnologica. E' il caso della conversione dell'Energia Elettrica in TEP, il cui valore è stato fissato recentemente in 0,187 tep/MWh, tiene conto dell’evoluzione in corso ed è legato agli esiti del mercato dei certificati bianchi; esso si riferisce al confronto con impianti nuovi a ciclo combinato e non al parco medio di tutti gli impianti di generazione.
Le responsabilità e le competenze dell'Energy Manager sono state poi ampliate dal D. lgs. 192 del 2005 che prescrive che il rispetto delle caratteristiche di energetiche dei nuovi edifici debba essere verificato dal Responsabile per la conservazione e l'uso razionale dell'energia nominato dall'ente che riceve la domanda. Il ruolo dell'EM si intreccia con quello del certificatore energetico, colui che attraverso la certificazione energetica, attesta la prestazione o il rendimento energetico di un edificio, cioè il fabbisogno annuo di energia dell’edificio stesso.
Altre recenti normative hanno ampliato ulteriormente il campo d'azione dell'EM: il DM. 21.12.2007 evidenzia come i progetti predisposti per acquisire i c.d. Certificati Bianchi alfine di conseguire gli obiettivi dei Decreti nella riduzione dei consumi finali di Energia possano essere eseguiti non più solo attraverso:
  • azioni delle imprese di distribuzione;
  • società controllate dai medesimi distributori;
  • società terze operanti nel settore dei servizi energetici, comprese le imprese artigiane e loro forme consortili;
ma anche dai:
  • soggetti tenuti alla nomina del responsabile per la conservazione e l'uso razionale dell'energia, che hanno effettivamente provveduto a tale nomina, i quali realizzano misure o interventi che comportano una riduzione dei consumi di energia primaria maggiore di una soglia minima, espressa in TEP, determinata dall'AEEG.
Ma nonostante queste aperture, quello dell'EM rimane il ruolo di una figura aziendale: negli ultimi anni si è affermata la necessità di costruire un mercato dei servizi energetici, in cui le istanze economiche, energetiche, finanziarie e di tutela dell'ambiente si incrocino e si fertilizzino reciprocamente. E' in questo contesto che nasce la figura dell'Esperto in Gestione dell’Energia (EGE) figura certificata ai sensi della Direttiva 2006/32/CE. Questi esperti hanno competenze maturate grazie ad un’idonea esperienza sul campo di tipo tecnico, economico-finanziario, normativo e anche in tema di comunicazione sul tema energia.
Ovviamente gli EGE possono operare in modo qualificato come Energy Managers e negli ambiti delle diagnosi, degli studi di fattibilità, dei contratti sulle forniture e sui servizi energetici, della certificazione energetica degli edifici e degli impianti, dell’accesso agli incentivi, della responsabilità di sistemi di gestione energia e della definizione di strumenti procedurali e normativi.
La direttiva 2006/32/CE viene recepita in Italia dal d. Lgs. 115/2008 e specificatamente dall’art. 16 dove si parla di “Qualificazione dei fornitori e dei servizi energetici”. “...Allo scopo di promuovere un processo di incremento del livello di qualità e competenza tecnica per i fornitori di servizi energetici, con uno o più decreti del MSE è approvata, a seguito dell'adozione di apposita norma tecnica UNI-CEI, una procedura di certificazione volontaria per gli esperti in gestione dell'energia. Tale norma viene printamente promulgata dall'UNI il 10/12/2009 ed è la norma UNI CEI 11339, che definisce l'EGE come il soggetto che ha le conoscenze, l'esperienza e la capacità necessarie per gestire l'uso dell'energia in modo efficiente.
Il campo dei competenti in campo energetico è a questo punto coperto da due figure, l'EM e l'EGE, che occupano il settore in modo complementare: il primo (EM), nominato dal soggetto interessato, continuerà a svolgere la propria attività di professionista interno o esterno. Tale figura potrà essere interessata o meno a certificare le proprie competenze in materia energetica, specie nel caso della libera professione, e quindi aderire al processo di certificazione volontaria. Il secondo certificato come esperto in gestione dell’energia (EGE) potrà svolgere anche funzioni diverse dalla figura dell’energy manager, come ad esempio operare all’interno di una Energy Service Company (ESCO).
Entrambe le figure sono i referenti principali per l'implementazione in azienda di un Sistema di Gestione dell'Energia secono la nuova norma ISO 50001:2011. Il sistema consente all'organizzazione di avere un approccio sistematico al continuo miglioramento della propria efficienza energetica: la norma descrive i requisiti per un continuo miglioramento sotto forma di un più efficiente e più sostenibile uso dell'energia, senza tener conto della sua forma. La norma è applicabile ad ogni organizzazione che desideri assicurarsi di essere conforme alla propria politica energetica e dimostrare tale conformità ad altri mediante autovalutazione e autodichiarazione di conformità o mediante certificazione di terza parte del proprio sistema di gestione dell'energia.